Monday, February 8, 2010

VUOTO A PERDERE

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Il martedì era il giorno in cui si aveva sempre più fretta di aprire, più voglia di vedere gente e spazzare il silenzio e la noia troppo grandi della notte. Perché il lunedì si rimaneva chiusi, e alle due notti di quiete si aggiungeva quest’altra intera giornata, delle notti più noiosa e snervante. Perché si sa, la notte ognuno dorme, mentre col sole c’è sempre chi passa, chi parla, chi grida. E si aprirebbero porte e finestre, come d’abitudine. Ma il lunedì era giorno di riposo e bisognava pazientare. Poi qualcuno, ed era il peggio, si avvicinava e spiava dai vetri. Indugiava, incredulo. Si faceva più piccolo come se sperasse di attraversare il vetro e ritrovarsi in sala. E noi pure speravamo. Vivevamo momenti di attesa infiniti. Si metteva la mano sopra gli occhi, ed era quasi un richiamo, una richiesta d’aiuto. Che ansia! Che battiti al cuore! Ma la figura si staccava dal vetro, lasciava cadere la mano e si allontanava, rassegnata o spazientita. A noi restava la nuova solitudine vera della sala. Una desolazione che rattristava ogni cosa: i singoli bicchieri allineati secondo la forma, le bottiglie, i tavolini, le sedie, il bancone, la macchina dell’espresso. Io stessa me ne stavo nel cantuccio dove mi avevano messa, spiavo come potevo quel viavai di gente e di macchine con un senso d’impotenza che, come capii più tardi, era la chiave della mia esistenza.

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Fu alle dieci del mattino del secondo martedì di giugno che la mia vita cambiò. Avevamo aperto alle sette, come ogni mattina lavorativa. All’inizio fu lento, come ogni martedì. Una giornata di chiusura pesa su di un esercizio più di quanto si possa immaginare.
La pulizia più accurata della domenica notte dava un ordine nuovo alle cose, a cui bisognava abituarsi, com’è naturale, come a ogni nuovo ordine. Gli oggetti venivano spesso cambiati di posto, secondo un piano che era difficile prevedere o capire in seguito. Con la riapertura del locale tutto appariva di nuovo chiaro, accettabile. Cessato lo scandalo della novità, tutto ridimensionato. Ma durante l’intera giornata del lunedì si viveva nell’ombra di un’indicibile incertezza. Grosse scatole venivano messe in mezzo alla sala, che contenevano chissà cosa e andavano chissà dove. Roba che non doveva avere alcuna relazione con la vita del locale, vista la fretta con cui veniva fatta sparire il martedì mattina prima delle sette. L’ultima persona che vedevamo la domenica sera era il ragazzo delle pulizie. Un giovane che contrariamente all’aspetto taciturno e depresso, parlava molto dopo un paio d’ore di lavoro, e cantava, dopo aver bevuto dalle varie bottiglie. Quando andava via sapevamo che per più di ventiquattr’ore non avremmo visto anima viva.

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Verso le dieci del mattino del secondo martedì di giugno fui acquistata da due giovani, una coppia di sposi che si trovava a passare per Bologna. Non so dire se fossi felice o triste. Il mio destino era di essere venduta, questo sapevo. Ero rimasta troppo a lungo in negozio. Non per mia volontà, ma per la svogliatezza con cui i lavoranti facevano il loro lavoro. Nessuno infatti si preoccupava del ricambio. Nessuno, cioè, sistemava dietro nel frigo le lattine nuove così da vendere prima quelle che prima avevano fatto ingresso in negozio. Ho visto andare via una compagna, e avrei potuto essere io, solo le rare volte che un cliente aveva chiesto un’aranciata molto fredda. Ma quel martedì avevo capito che era tutto finito perché, preso da non so che capriccio, il ragazzo di turno mi aveva cambiata di posto.
La coppia di sposi pagò e mi mise in borsa. Ahi, libertà! Ahi, destino! No avrei mai più visto le pareti azzurrine del bar, le tendine sempre aperte alle finestre, fuori il marciapede e il portico. Mai più mi avrebbero messa sul banco perché ero troppro fredda per essere venduta, né di nuovo in fondo al frigo perché mi ero ormai troppo riscaldata. Non avrei più trascorso un lunedì nell’ombra languida della chiusura, né più tremato d’ansia ai primi colpi del martedì mattina.
Dal chiuso della borsa dovetti dire addio alle bottiglie del Campari e del Cabernet, alle altre lattine che mi vedevano andare e s’interrogavano inquiete sul proprio destino.

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Facemmo a piedi la strada fino in stazione. Alle 11.20 partì il treno che doveva portarci a Firenze. Verso mezzogiorno la coppia decise che era ora di pranzare. Sentii una mano che mi toccava e si ritraeva gelata. Pensai: è finita!, ma non era così. Gli sposi mangiarono un panino e bevvero dell’acqua minerale da una bottiglia di plastica, che si trovava in effetti nella stessa borsa in cui io mi trovavo. E l’aranciata?, chiese lui. Possiamo berla più tardi, fu la risposta.
Avevo ancora del tempo. Ma a che mi serviva? Non sapevo (né lo so ora) se per una lattina sia meglio essere piena o vuota. Ciò che mi valorizzava era indubbiamente il liquido che contenevo. Per quello era stato versato del denaro, per quello questi due ragazzi mi tenevano nella borsa. Eppure io non ero solo quel succo. Le mie vicissitudini non terminarono una volta che ne venni svuotata. Anzi, abbandonata a me stessa conobbi la violenza e la tragedia della vita che prima ignoravo.
Non venni bevuta. Ed è inutile chiedersi che sorte diversa avrei avuto se la coppia mi avesse lasciata sul treno. Ogni lattina potrebbe chiedersi simili cose.
Arrivati a Firenze cercammo un albergo. E io vi rimasi per due giorni, sempre nella stessa borsa perché, come avrei saputo in seguito, ero stata dimenticata.

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E di nuovo partimmo. Un’altra sfacchinata fino a Roma, dove arrivammo però prima dell’ora di pranzo e per me di essere bevuta non se ne parlò. Solo che, una volta in albergo, lei la sposa, cercando un fazzoletto nella borsa, si accorse della mia presenza e disse al marito, Ehi guarda, qui c’è l’aranciata che avevamo comprato a Bologna. Sembrava, dal tono sorpreso di voce con cui la mia presenza veniva resa manifesta, che io a loro insaputa mi fossi cacciata nella borsa. Ma il senso delle parole dette negava questa interpretazione: ricordavano infatti che ero stata acquistata a Bologna, pensiero che mi riempì di nostalgia.
La donna disse, Possiamo berla nel pomeriggio. Ma è calda!, provò a dire lui. E fui trasferita dalla borsa da viaggio nella borsetta, pur sempre capiente, della giovane signora.
Eccomi in giro per Roma. La coppia pranzò in una trattoria di Trastevere. Vedevo il sole ogni volta che la signora apriva la borsa per fumare una sigaretta. Nel pomeriggio mi portarono di qua e di là, senza che io sapessi dove. Si camminava, ci si sedeva, si camminava. A un certo punto l’uomo disse, Andiamo a piazza di Spagna. E io sentii che la mia fine si faceva vicina.

Piazza di Spagna. Le quattro del pomeriggio.
Ehi! Perché non ci beviamo l’aranciata?
A me non va, dev’essere caldissima.
Dài! Solo un goccio! Tanto per non doversela portare sempre appresso.
No, non ne voglio, veramente. Se ti va, bevila tu. Bevi quella che vuoi, il resto lascialo.

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Così mi stapparono. Venni svuotata in parte del mio contenuto, poi abbandonata su un gradino, in mezzo a una moltitudine di gente insensibile come cose.

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Non so quanto tempo passò prima che un calcio, dato per capriccio o per caso, non mi fece rotolare. La gente mi sfiorava da tutte le parti. Quante scarpe sembravano colpirmi e poi cambiavano direzione! Ma quel calcio colpì in pieno il bersaglio, ed ebbe inizio la mia discesa verso la piazza vera e propria.
Se prima ero in posizione eretta, così mi avevano lasciata gli sposi, non so se per grazia o per economia, mi ritrovai dopo la caduta coricata. Un ragazzo che leggeva un libro prese a farmi rotolare avanti e indietro sotto il piede, proprio come una ruota. Dopo un pò si stancò, non solo di quell’esercizio, ma di leggere e stare seduto. Si alzò, lasciandomi a pochi centimetri di distanza da dove mi aveva trovata.
Come arrivai sulla strada non so dire. A un certo punto tutto si confuse e presi a rotolare senza freno. Fui colpita più di una volta, e credo da più di una persona. Persi quasi tutto il liquido che mi era rimasto dentro. Ero tutta ammaccata. Mi fermai davanti a un gruppo di ragazzi dal quale uno si staccò venendomi incontro minaccioso. Prendi, Paolo!, disse. E venni fatta volare qualche metro più in là. Fui ricevuta da un altro di quei ragazzi e rilanciata indietro, e poi avanti e a sinistra e a destra, e di nuovo avanti e di nuovo indietro.
Se fare la ruota mi aveva stupito, volare di qua e di là come una palla mi emozionava e mi faceva paura. Adesso si trattava di essere libera. E qui non intendo libera di fare qualunque cosa volessi, piuttosto libera dalla protezione che, ruota, il piede mi dava. Non più la calda ovattata tranquillità della borsa, non più le spalle coperte. Adesso si trattava di non sapere più nemmeno che direzione avrei preso. Tutto dipendeva dal libero capriccio dei giocatori. Cosa che, emozionante da un lato, era dall’altro terribile appunto.

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Quando i ragazzi si stancarono di quel gioco fui di nuovo abbandonata a me stessa. Di nuovo assaporai il senso strano, angoscioso della libertà. Ero inutile. Le mie condizioni erano peggiorate. Non sarei mai più stata acquistata in un bar da una coppia di giovani sposi, mai più fatta tramite di un rapporto economico, mai più carica di un progetto. Non potevo nemmeno più fare da ruota, ammaccata com’ero. Il passato era passato, e non sapevo che futuro aspettarmi. Rabbuiava. Un senso di solitudine, simile a quello che provavo a sera nel bar, si fece sentire. Ma adesso, oltre a essere sola, ero all’aperto. Passò un cane che annusava ogni cosa e mi annusò.

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Non dovrei aggiungere una sola parola se un disgraziato, carico di borse e vari indumenti, non mi avesse raccolta. Mi esaminò minuziosamente, facendomi girare tra le mani. Mi agitò e bevve quel goccio di liquido che nonostante tutto mi era rimasto dentro. Poi mi mise in una delle sue borse, fra stracci e altre lattine.
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(Pubblicato su Frigidaire, novembre 1988, #96, 45-47; versione leggermente modificata)

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